La tripla barriera europea e le conseguenze per chi cerca di attraversarla

#migrazioni #frontiere

12 ottobre 2025

 

Il testo analizza come l’Unione europea ha costruito una tripla barriera frontaliera frontiere e come condiziona la mobilità delle persone «indesiderabili». Ne descrive inoltre le conseguenze per coloro che, resi illegali, continuano a cercare di aggirarla.

di Cristina Del Biaggio

 

Geografa, Université Grenoble Alpes et Laboratoire Pacte

Continuum della mobilità: dall’ipermobilità all’immobilità

Si può collocare la popolazione mondiale su un continuum caratterizzato da due poli: da un lato gli e le “ipermobili” e dall’altro gli e le “immobili”, o, meglio, le persone “immobilizzate” – poiché poste, dalle politiche migratorie restrittive, in condizione di immobilità. L’ipermobile è l’uomo d’affari che percorre il pianeta con un jet privato, o la turista che passa ogni anno alcune settimane in un paese «esotico». Per loro, l’attraversamento delle frontiere rappresenta soltanto una breve sosta lungo il tragitto verso la destinazione finale. I dispositivi tecnologici delle cosiddette “frontiere intelligenti” (smart borders) sono pensati per consentire a questi “viaggiatori senza rischio” di scivolare senza ostacoli oltre i confini.

Le persone «immobilizzate» sono invece i rifugiati e gli sfollati, persone spesso bloccate nei campi – l’80% delle e dei rifugiati nel mondo è accolto nei paesi limitrofi ai loro paesi d’origine, ben al di là della frontiera dello Spazio Schengen. Se decidono di lasciare la regione in cui si sono installati, vengono identificati come “viaggiatori a rischio” e bloccati dagli stessi dispositivi tecnologici che permettono agli e alle ipermobili di sbrigare velocemente le pratiche frontaliere.

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L’arco dei rifugiati e degli sfollati
Mappa di Philippe Rekacewicz (versione 2017), pubblicata nella cartoteca di visionscarto

Quali sono i meccanismi attraverso i quali una minoranza della popolazione mondiale viene assegnata all’immobilità? Lo vediamo qui di seguito. Analizzeremo inoltre le conseguenze che questi meccanismi comportanto per le persone il cui viaggio viene ostacolato.

Dal mondo di ieri al mondo di oggi

Il pianeta non è sempre stato così compartimentato. Il mondo precedente la Seconda guerra mondiale assomigliava piuttosto a quello descritto da Stefan Zweig in Il mondo di ieri. Ricordi di un europeo (1942):

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Busto di Stefan Zweig, Salisburgo (Austria).
Foto: Clemensfranz / wikimedia commons

«Prima del 1914, la terra apparteneva a tutti gli uomini. […] Non c’erano permessi, non c’erano autorizzazioni, e mi diverto sempre dello stupore dei giovani quando racconto loro che prima del 1914 viaggiavo in India e in America senza possedere un passaporto, senza nemmeno averne mai visto uno.»

Era il mondo della borghesia dell’epoca, quella che disponeva dei mezzi per girare il pianeta, e che oggi sembra scomparso. Le illusioni di un mondo «libero», senza ostacoli, sono crollate, paradossalmente, con il muro di Berlino. A partire dagli anni Ottanta, cioè da quando i paesi occidentali hanno generalizzato l’obbligo di visti e permessi, il mondo di Zweig non è più una realtà per gran parte della popolazione mondiale, quella definita «indesiderabile» [1].

La chiusura delle frontiere è dunque un processo relativamente recente, ma concepito come irreversibile. Se ne discute poco, e quasi sempre sempre storicizzarne il processo. Le frontiere sono pensate come un elemento immutato - e immutabile - dell’organizzazione del mondo. Le nostre analisi e i nostri immaginari non riescono a liberarsi da ciò che le e i ricercatori chiamano “nazionalismo metodologico” [2], cioè la tendenza a leggere tutti i processi sociali e politici usando come base dell’analisi il mondo suddiviso in Stati nazionali e in cui le frontiere - chiuse per gli e le indesiderabili - risulta essere un dato non contestabile. Questo testo si sofferma sulla storia che ci ha portati e portate a considerare la “chiusura delle frontiere” come solo orizzonte possibile della coabitazione umana.

La Seconda guerra mondiale rappresenta un momento chiave nella definizione delle condizioni di circolazione nel mondo contemporaneo. Quando si è conclusa, si è voluto evitare una nuova tragedia di persone erranti sul suolo europeo, in cerca di una protezione che non fu loro concessa, anche perché, a seguito della Conferenza di Evian (1938), nessuno Stato europeo concesse agli ebrei in fuga la possibilità di trovare rifugio. Così gli Stati, in seno a istanze sovranazionali, hanno immaginato strumenti di protezione, di cui la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo (DUDU), firmata nel 1948, è la prima emanazione. L’articolo 14 stabilisce che “in caso di persecuzione, ogni persona ha il diritto di cercare asilo e di beneficiare dell’asilo in altri Paesi” [3], facendo emergere il legame tra la possibilità di trovare rifugio e la necessità di attraversare una frontiera. In modo significativo, poiché posto prima dell’articolo 14, l’articolo 13 riguarda proprio la libertà di circolazione.

Tuttavia, per quanto riguarda la protezione effettiva degli individui, la DUDU, non vincolante, presenta delle lacune: se prevede che le persone possano lasciare il proprio Paese per cercare protezione, non contempla il corrispettivo logico, ossia il diritto di immigrare in un altro Paese. Imbevuta di una visione sovranista, lascia agli Stati il potere di decidere le condizioni di ingresso.

La Convenzione relativa allo statuto dei rifugiati, o Convenzione di Ginevra (1951), limita, attraverso il principio di non-respingimento, questa prerogativa degli Stati. Da un lato, la Convenzione menziona la necessità di trovarsi al di fuori del Paese di cui la o il rifugiato ha la cittadinanza per poter aspirare a una protezione internazionale (art. 2), condizionando così il diritto di chiedere asilo al previo attraversamento di almeno una frontiera. Dall’altro, vieta l’espulsione di «un rifugiato verso le frontiere dei territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate» (art. 33). Dunque, sebbene gli Stati siano sovrani nel controllo dei flussi migratori e possano fissare le condizioni d’ingresso, soggiorno e stabilimento degli stranieri sul proprio territorio, il principio di non respingimento limita questa libertà di principio quando si tratta di persone che chiedono protezione da una persecuzione.

In sintesi, aspirare a una protezione richiede due condizioni: essere usciti dal Paese in cui ha luogo la persecuzione e trovarsi fisicamente sul suolo del Paese in cui si richiede protezione. Parallelamente, il diritto internazionale obbliga gli Stati a proteggere i rifugiati dal respingimento; non potendo legalmente limitare l’accesso al loro territorio a chi chiede protezione, essi hanno trovato altre strategie per restringere gli arrivi.

L’Europa delle tre frontiere

Non potendo agire che parzialmente sul confine, gli Stati del Nord globalizzato [4] hanno messo in atto meccanismi di controllo che agiscono prima di esso. Attraverso politiche di “esternalizzazione dei controlli alle frontiere” [5], gli Stati stanno mettendo in atto ciò che Karin Fathimath Afeef chiama un “regime di non ingresso” [6]. Lo fanno cooperando con gli Stati da cui partono o transitano le e i migranti, subordinando gli aiuti allo sviluppo a un inasprimento dei controlli alle frontiere, introducendo visti, dispiegando agenti di paesi europei per sorvegliare e controllare, o addirittura arrestare, i flussi migratori, obbligando le compagnie aeree, sotto pena di multa, a effettuare i controlli di frontiera al momento del check-in negli aeroporti. Si tratta della pre-frontiera, rappresentata da un ampio tratto grigio dai contorni sfocati al centro del Sahel nella mappa seguente.

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L’Europa delle tre frontiere
Mappa : Philippe Rekacewicz, 2020.

Tuttavia, questi ostacoli che agiscono prima della frontiera Schengen non sono sufficienti a fermare i flussi migratori: le persone continuano a mettersi in viaggio, in modo illegale, fino a raggiungere la frontiera esterna dell’Unione europea. Statisticamente, questi spostamenti rappresentano solo una piccola minoranza degli ingressi nel continente europeo (dall’1 al 3% secondo Bernardie-Tahir e Schmoll [7]), ma dal punto di vista mediatico e politico è su questi che si concentra l’attenzione.

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Numero di persone entrate nello Spazio Schengen. In rosso, le persone entrate senza documenti validi; in verde, le persone entrate con un visto.
Fonte: Commissione europea, adattamento del grafico pubblicato nel libro Méditerranée : des Frontieres à la dérive di Nathalie Bernardie-Tahir e Camille Schmoll, 2018

Per impedire il superamento della linea rossa del confine esterno dell’UE, i poteri in carica erigono barriere frontaliere e “santuarizzano” il mondo “ricco”: intorno all’Europa, al Nord America, all’Australia e all’Africa meridionale. Come lo sottolineava già nel 1995 Bernard Ravenel, sono gli accordi di Schengen firmati allora dagli otto paesi della Comunità europea (Germania, Belgio, Spagna, Francia, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi e Portogallo) che costituiscono quella che chiama la “base giuridico-poliziesca della costruzione del muro della fortezza (visti, sanzioni per le compagnie di trasporto che non controllano sufficientemente la regolarità dei documenti dei passeggeri, lista comune degli indesiderabili, scambi d’informazioni, costituzione di uno strumento di cooperazione di polizia: Europol)” [8].

Secondo recenti calcoli, quasi un quarto delle frontiere mondiali sono murate [9]. Tuttavia, una frontiera murata non è la materializzazione di una semplice linea di confine: una frontiera non si limita a separare, è anche un luogo di passaggio e di scambi. Una frontiera murata, invece divide e impedisce di vedere cosa c’è dall’altra parte, di praticare degli scambi, siano essi commerciali o sociali. Dall’altra parte del muro si creano dei «mostri», persone e cose che non si possono vedere o conoscere [10]. Si crea così un circolo vizioso [11]: immaginarsi un “mostro” dall’altra parte del muro porta a sua volta ad un aumento della chiusura. Un’escalation che alimenta i lauti guadagni per chi realizza barriere sempre più tecnologiche. Gli interessi economici del complesso militare-industriale, che si trasforma in complesso di «sicurezza-industriale» con l’evoluzione contemporanea della militarizzazione delle frontiere, sono enormi.

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Muri frontalieri
Mappa: Philippe Rivière e Philippe Rekacewicz, 2020

La costruzione di barriere di confine e di altri dispositivi di militarizzazione delle frontiere è in effetti un business altamente redditizio, il cui costo finanziario (e umano, come vedremo più avanti) è molto elevato. Claire Rodier, nel suo libro Xénophobie Business (2012), indaga sul drastico aumento del budget di Frontex (Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera) e su quello dedicato alla costruzione e alla gestione dei centri di detenzione amministrativa per persone in situazione irregolare. Secondo The Business of Building Walls, un rapporto del Transnational Institute (2019), l’Unione europea ha speso 1,7 miliardi di euro per la sicurezza delle sue frontiere dal 2007 al 2012 e prevede di spendere 8 miliardi tra il 2020 e il 2027.

Una terza frontiera, tratteggiata, si sta delineando all’interno (e ormai anche al di là) del continente europeo. È la post-frontiera dell’espulsione. È rappresentata dai punti neri, che indicano l’ubicazione dei centri di detenzione amministrativa. Mentre fino a pochi anni fa si trovavano solo sul territorio europeo, oggi oltrepassano i confini dell’Unione europea e sono insediati ben al di là. Pur non essendo fisicamente sul suo territorio, l’Europa contribuisce al loro finanziamento e in parte alla loro gestione.

La santuarizzazione del mondo e le sue conseguenze

Il mondo contemporaneo si trova così frammentato, diviso, compartimentato, «santuarizzato».

Nonostante i lauti finanziamenti per erigere sempre più barriere, i movimenti migratori, legali o illegalizzati, né si esauriscono né aumentano nemmeno in modo esponenziale (la percentuale di migranti nella popolazione mondiale è stabile al 3% da quando si è iniziato a contarli all’indomani della seconda guerra mondiale - cifre che non includono i rifugiati). Contrariamente alle voci che circolano nell’arena politica, pubblica e mediatica, la sorveglianza delle frontiere non ha mai permesso di controllare i flussi migratori; tuttavia, è proprio questa fantasia che guida le politiche migratorie contemporanee, di cui illustrerò di seguito le drammatiche conseguenze.

Gli effetti del tentativo di chiudere le frontiere assumono quattro forme:

  • una “migrazione” dei flussi migratori;
  • la creazione di accampamenti informali nelle vicinanze dei confini;
  • l’allungamento dei percorsi migratori;
  • l’aumento della violenza e della mortalità che ne deriva.

Prima conseguenza: dopo la costruzione delle barriere, si osserva uno spostamento, e non un arresto, dei flussi migratori, come lo mostra l’esempio dell’evoluzione dei passaggi al confine terrestre tra Grecia e Turchia (vedi riquadro qui sotto).

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Un mondo santuarizzato
Pubblicata su visionscarto per illustrare l’articolo «Mourir aux portes de l’Europe», 28 aprile 2014
Mappa : Philippe Rekacewicz, 2012

IL CONFINE TERRESTRE TRA GRECIA E TURCHIA

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Barriere frontaliere e rotte migratorie nel sud-est europeo.
Pubblicata su visionscarto per illustrare l’articolo «Barrières frontalières et hotspots dans le sud-est de l’Europe», 21 giugno 2016.
Mappa: Sébastien Piantoni e Stéphane Rosière, 2016.

A partire dal 2010, la regione frontaliera dell’Evros [12] ha registrato un aumento dei passaggi. Per fermarli, il governo greco ha eretto una barriera di confine (Del Biaggio e Campi, 2013) sull’unico valico di frontiera non delimitato dal fiume nella regione. Con la costruzione del muro, nel 2012, le persone in transito hanno sì evitato di passare da questa zona per entrare in Europa, ma la Bulgaria ha visto aumentare il numero di attraversamenti e ha a sua volta eretto una barriera di confine, completata nel 2013. Ciò non ha tuttavia fermato le persone in migrazione: a partire dalla primavera del 2018, gli attraversamenti avvengono di nuovo attraverso la regione dell’Evros ma sono effettuati attraversando il fiume, risultando molto più pericolosi di quelli che, prima della costruzione del muro, venivano effettuati via terra. Nel marzo 2020, la Grecia ha annunciato l’intenzione di estendere la recinzione eretta nel 2012...

Seconda conseguenza: la creazione di accampamenti informali e la costruzione di campi, spesso definiti umanitari, a ridosso dei confini. Si tratta di zone cuscinetto dove regna la noia, dove i migranti aspettano il passatore «giusto» o i soldi inviati dalla famiglia per sopravvivere e pianificare il proseguimento del viaggio. Ogni frontiera chiusa ha i suoi “accampamenti”: Tijuana, in Messico, o Ceuta e Melilla, enclavi spagnole sul territorio marocchino. Questi completano così le infrastrutture di attesa che eravamo abituati a vedere in paesi lontani: campi, formati da tende o container, costruiti dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR). Oggi si trovano anche in paesi europei [13], come si può vedere con gli hotspot, centri di identificazione e smistamento dei profughi istituiti nel 2015 in Grecia e in Italia con fondi europei, o i campi lungo la «rotta dei Balcani», in particolare in Macedonia.

Terza conseguenza: la politica di sicurezza allunga i percorsi migratori, che ora possono durare diversi anni e diventare così tortuosi che la classificazione tra paesi di origine, di transito e di destinazione perde di significato. Ci si può fermare due anni in un paese prima di ripartire verso un altro, che potrebbe non essere il paese di destinazione finale, perché nel frattempo sarà stato deciso, con una decisione amministrativa, di rimandarvi nel paese da cui siete entrati nel territorio europeo.

La quarta conseguenza è quella della sofferenza fisica e del moltiplicarsi dei cadaveri. Lungo i percorsi, le e i migranti, in condizioni di vulnerabilità, vengono violentati, torturati, mutilati. Come ricorda Reece Jones, “quando le espressioni passive del potere come muri, frontiere o leggi sulla proprietà falliscono, la violenza fisica è spesso l’unico mezzo rimasto per impedire movimenti indesiderati” [14], violenza che può causare la perdita di vite umane. Dati risalenti al 2010 indicano che tra il 1994 e il 2004 sono stati ritrovati più di 3000 cadaveri al confine tra Messico e Stati Uniti. In Europa, l’associazione United for intercultural action registra i morti alle frontiere europee; l’elenco, aggiornato regolarmente dal 1993, conta nel 2025 66’519 cadaveri, persone decedute durante la traversata del Mediterraneo ma anche all’interno dell’Europa, nei centri di detenzione amministrativa o durante il passaggio di una frontiera interna, che segna il confine tra un paese europeo e un altro.

Conclusione: un excursus storico per comprendere la geografia

Migrare attraverso frontiere altamente controllate, sorvegliate e militarizzate sta diventando sempre più, per le e gli “indesiderabili”, un percorso mortale irto di ostacoli. I media moltiplicano le immagini di profughi a bordo di imbarcazioni sovraccariche che tentano di attraversare il Mediterraneo: un gioco politico e mediatico che rafforza la retorica dell’invasione e invita a rafforzare la sicurezza delle frontiere, che renderà i percorsi di chi è alla ricerca di un rifugio ancora più pericolosi.

Cosa ci insegna la storia? All’inizio degli anni 1990, dopo la caduta del regime comunista, anche gli albanesi arrivavano sulle coste italiane su barconi sovraffollati. “Che fine hanno fatto gli albanesi?”, si chiede 25 anni dopo Massimo Cirri in un articolo pubblicato sul blog del quotidiano italiano Il Post. La sua risposta fa luce sia sul nostro presente che sulla (non) pertinenza delle politiche migratorie attualmente messe in atto dai nostri governi:

«Com’è che sono spariti gli albanesi? [...] Se incrociamo i dati si capisce che hanno cominciato a sparire, gli albanesi, dalla crocefissione mediatica, dal centro del problema, dal continuo soffriggere su “cosa ne facciamo”, quando – semplicemente – sono cambiate alcune leggi e andare e venire dall’Albania all’Italia è diventata una cosa un po’ più normale. Che si poteva fare comprando un biglietto e salendo su un traghetto. Una nave normale. In cabina o posto ponte. Non una nave sommersa di corpi e a rischio di affondare. Perché affondavano anche le navi degli albanesi. E morivano, gli albanesi.
Adesso non muoiono più. Vanno e vengono, si muovono. Aprono ristoranti. [...]
Così possiamo dire che l’integrazione più difficile dei nostri giorni, la possibilità di integrazione di chi arriva da un altro luogo cambia un po’, smette di essere un problema, quando dai luoghi si può andare e venire.
»
 

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La nave Vlora attraccata ad una banchina del porto di Bari, piena di migranti albanesi.
Foto: Luca Turi, 8 agosto 1991 / wikimedia commons

 

Bibliografia

  • Bernardie-Tahir N., Schmoll C. et. al., Méditerranée : des frontières à la dérive, Lyon, Le Passager Clandestin, 2018.
  • Bouagga Y., Barré C. et. al., De Lesbos à Calais : Comment l’Europe fabrique des camps, Lyon, Le Passager Clandestin, 2017.
  • Jones R., Violent borders: refugees and the right to move, Londres; Brooklyn, New York, Verso, 2016.
  • Migreurop, Atlas des migrants en Europe. Approches critiques des politiques migratoires : Approches critiques des politiques migratoires, 3e édition, Paris, Armand Colin, 2017.
  • Poiret A., 2016, Bienvenue au Réfugistan, 52 min, Quark Productions.
  • Ravenel B., Méditerranée. L’impossible mur, L’Harmattan, 1995.
  • Rodier C., Xénophobie business, Paris, La Découverte, 2012.
  • Rosière S., Frontières de fer : Le cloisonnement du monde, Paris, Editions Syllepse, 2020.